Nulla da dichiarare, anzi sì.

Il furgone ondeggia nervoso verso il confine polacco; Leopoli alle spalle, noi in silenzio perlopiù. “How to help Ukraine?” si chiede un cartello a lato della strada. Nessuna risposta. Miri guarda, Pier ascolta, Ire e Dario riposano gli occhi per un po’. Io osservo nello specchio il nostro autista muto schivare i crateri sulla strada e le auto contromano, pregando il dio dei sorpassi azzardati. 

Solo dieci giorni prima, in viaggio per Leopoli, il suono delle sirene non impediva allo stesso autista di continuare la corsa, senza fermarsi, verso la struttura che ci avrebbe ospitati. Lasciaci qui, dobbiamo trovare un rifugio! – Traduceva in ucraino Google con voce distaccata. No danger… – rispondeva sbuffando l’autista. 48 ore prima del nostro arrivo un drone russo intercettato distruggeva mezza palazzina a pochi isolati da lì. Erano passati due anni dall’invasione russa e nessuno guardava più il cielo in caso di allarme, si camminava a testa bassa e si rispondeva sottovoce. L’autista a forza si fermava e noi scendevamo di corsa sotto terra, nel primo dei nostri quattro rifugi: una scuola di poliziotte e poliziotti ventenni che ci osservavano come mosche bianche volare tra i banchi. Sopra di noi le macchine scivolavano sui sanpietrini mentre la seconda sirena sanciva la fine dell’allarme. Si usciva, il cielo era cupo e un agente sui diciott’anni ci avvertiva che fumare davanti alla scuola era proibito.

Il furgone viaggia rapido verso il confine, di ritorno dopo dieci giorni di missione per Mediterranea a Leopoli con il progetto “Med Car 4 Ukraine”. Dietro di me Miriam guarda il paesaggio, la sbircio dal riflesso del vetro. Pier siede davanti e ascolta un podcast di Barbero con gli occhi sgranati più per la guida che per il racconto. Per dieci giorni abbiamo condiviso ogni centimetro di stanza, ogni tensione e risata distensiva.  Alla mia destra Irene un po’ dorme, un po’ ride e un po’ parla, ma perlopiù dorme. Dietro di lei Dario resta in silenzio guardando gli alberi scorrere veloci, prima di assopirsi pure lui. Penso alla parola comunità. La tensione scende e la stanchezza aspira le ultime energie, impegnate sul campo fino all’ultimo. Io sommo le ore di sonno incredulo di poter essere ancora vigile. Cerco di immaginare il paesaggio oltre il vetro in primavera, lo penso fiorito di rosa e verde di prato, con il cielo azzurro e la gente che mostra i denti non per ringhiare, ma solo per sorridere. Una ragazza abbraccia un militare sui vent’anni nell’immagine di un cartellone prima di Vishnya. Forse parte, forse torna, sembrano felici. Qualche giorno fa due genitori pulivano in silenzio la tomba del figlio al cimitero militare di Leopoli. Anche lui aveva vent’anni o poco più. La mamma spolverava la foto e il papà rigirava la terra dei fiori, sopra di loro sventolavano le bandiere. Li ho visti in silenzio, seduto su una panchina senza riuscire ad immaginarli in primavera.

Guardo un larice da solo in mezzo al campo e chiudo gli occhi per un po’. Sento la strada scorrere zigzagando e penso al nostro attivista Vincenzo e ai suoi saluti commossi. A quanto sia bello vedere una  rosa aprirsi e appoggiare per terra le spine. Ripenso alla determinazione, oltre ogni ora di sonno o valore terreno, di Vanessa, al senso di svegliarsi la mattina con uno scopo e riuscire a dargli un nome: Mediterranea Saving Humans. L’autista non dice una parola neanche a spremerlo, guida senza navigatore e senza timore di sorpassare tre macchine di fila. Si svegliano Irene e Dario, siamo tutti e cinque di nuovo presenti a pochi chilometri dal confine, geografico e temporale.

Scorrono le macchine e le  ultime foto sul telefono. Qui eravamo fuori Leopoli, non ricordo il paese ma l’odore si. Tre signore condividono due stanze e una cucina, sono del Donbass e parlano russo. La più spigliata mostra fiera il cartellino che attesta la sua laurea in  ingegneria chimica, al servizio dell’esercito per oltre trent’anni prima di lasciare tutto e scappare.

Ho la mentalità delle scienze esatte e durante il dominio sovietico studiavamo senza soldi – Traduce dal russo all’italiano Google Translate. Gli studi umanistici non funzioneranno! – Sentenzia. Sorrido e penso, faticando a stare nell’odore della stanza e in ascolto dei pianti di chi ha lasciato tutto e si ritrova con niente.

Scorro il dito sul display e compare il video di Pier che prova a innestare una marcia indefinita del nostro furgone-ambulatorio. Nonostante la ripresa da battello, sono dieci le strutture che grazie a lui abbiamo visitato tra il traffico arrogante di Leopoli e dintorni: lo studentato, le unbroken mothers, gli homeless, gli sfollati di Sykhiv, la comunità di Sant’Egidio,  l’ospedale pediatrico di St. Nikolas e altri di cui non ricordo il nome, ma solo i volti e gli attimi di condivisione. Una bambina appoggia la testa al muro e urla “1,2,3 stella!”, una signora senza più nulla ci dona dei cioccolatini, un bambino imbraccia un mitra colorato di mattoncini Lego e ci intima di giocare con lui. 

Sei mai stato con quattro medici? – Mi chiedeva Dario dieci giorni prima. No, ma ho sgranato gli occhi di continuo nel vedere il team lavorare e parlare una lingua affascinante e incomprensibile per chi non abita quel pianeta. Loro armonicamente valutavano e si confrontavano, dispensando farmaci e sorrisi senza indugiare, io per lo più ascoltavo e parlavo via Google Translate con i pazienti. Ripenso al mio ruolo, sul quale mi interrogo.

Dallo zaino in mezzo ai piedi spunta la cartina preparata ad hoc per non perderci tra i meandri emotivi vissuti. Siamo passati dal Lago di Commozione guardando il Faro Illuminante, dalla Montagna della Riconoscenza al Paese dello Sconcerto, fino a raggiungere i Villaggi dell’Intimità e dell’Amicizia. Alito sul vetro e disegno un sorriso, sto bene e sento dentro un’anguilla che si muove e morde il fondale del mio stomaco. Fatico a chiudere un’esperienza quando questa si deposita, ma so che è importante farlo nel migliore dei modi. Penso all’attività della sera e mi chiedo se reggerò emotivamente. Dei momenti più intimi non ho foto e penso sia giusto così: come si imprime la comprensione empatica? Chi si è aperto al gruppo e si è dichiarato, chi ha capito l’altro facendo un passo indietro. Guardo Miriam, Dario, Irene e Pier nei loro silenzi, penso a Vanessa e Vincenzo nelle loro battaglie di casa. Dottori e attivisti poi, umani prima. L’ascolto ha un potere straordinario, l’empatia ha un potere straordinario, il Gruppo d’Incontro ha un potere straordinario, l’Essere Umano ha un potere straordinario e mi fa strano pensarlo uscendo da una nazione in guerra.

Ci ferma un posto di blocco. Il militare minaccia qualcosa, l’autista risponde a tono. Medici volontari – capisco dal discorso. E un counsellor… – Dico sottovoce. Vaglielo poi te a spiegare che lavoro fai. Il militare apre il portone e lo richiude guardandoci negli occhi. Nulla da dichiarare, anzi sì: la guerra fa schifo.

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