Diario dal carcere • Casellario emozionale

Un’umida scala di grigi è la tonalità scelta per dipingere la giornata odierna, pallido quadro tra la cornice di muri color cenere che ne delineano i confini invalicabili. L’andirivieni fumido di macchine sgonfia e rigonfia il parcheggio stracolmo come il polmone di un fumatore accanito. Scende da una vecchia panda grigia il maglione rosso di una signora dagli occhi gonfi, che tiene per mano una bimba dalla pelle chiara e il vestititino azzurro. Unico modo per portare tra le mura del carcere uno squarcio di cielo. 

Gruppo emozioni! Gruppo emozioni in sala gialla! – urlano i megafoni del settimo braccio andando così a rimpolpare piano il progetto di gestione emozionale lanciato e portato avanti da Rogersianamente, ora in collaborazione con direzione libera. Lo stato emotivo non risulta tra i casellari giudiziali e non è tra le fitte righe di un documento che pesa sulle schiene piegate in cerchio, intente a parlare di ciò che é stato e di ciò che forse sarà. Ma é il qui ed ora l’unico momento vivido che facilmente scivola tra le dita di chi parla e che la facilitazione coglie al volo, rimettendolo tra le mani di chi condivide la propria esperienza.

Lucidamente J. parla delle sue dipendenze e di come la detenzione gli sia stata d’aiuto per liberarsene. La preoccupazione si rivolge al futuro e al lavoro da costruire da zero, al timore di ricascarci, alla consapevolezza di uscire diverso anche se il casellario giudiziale è un fardello con cui fare i conti ogni mattina.

«le emozioni sono correnti profonde che spesso ci trascinano facendoci annaspare. Senza pretendere di guidarle, scopriamo che galleggiamo per natura e per tendenza nuotiamo verso la nostra direzione»

Sono in carcere da vent’anni e forse per altri venti questo sarà il mio posto. – G. ha ascoltato parlare gli altri in silenzio, con lo sguardo compassionevole e attento. Non posso far tornare in vita le persone alle quali l’ho tolta. – dice sottovoce guardando il pavimento. É un uomo grande dal viso a spigoli e le sue parole sembrano sentenze sussurrate: serve avvicinarsi un poco per sentirlo, sia fuori che dentro. Anch’io non sono più quello di prima, non sono più la persona di vent’anni fa. Ma questo non risulta dalle carte e posso saperlo solo io. – Davanti a lui A. lo osserva e lo ringrazia guardandolo negli occhi – Lui lo sa perché – dice. Il supporto reciproco ed il clima d’ascolto catalizza consapevolezza e fiducia tra i partecipanti, a prescindere dal reato commesso. La facilitazione del gruppo non passa per la giustificazione dell’atto irreparabile ma per la comprensione e l’accettazione senza condizioni dell’essere umano, per il solo fatto d’esistere. É la chiave di lettura rogersiana dell’esistenza, é la chiave che ci permette di aprire le celle dei detenuti e far sì che essi stessi evadano i loro turbamenti. Le parole sono onde di un mare agitato, le emozioni correnti profonde che spesso ci trascinano facendoci annaspare. Senza pretendere di guidarle, scopriamo che galleggiamo per natura e per tendenza nuotiamo verso la nostra direzione. La voce di A. trema quando parla ancora del figlio che si rifiuta d’incontrarlo; questa volta la diga non cede ed il suo viso resta asciutto. Il silenzio del gruppo accoglie di nuovo le sue onde e raccoglie l’emozione caduta, per poi riporgliela tra le mani con l’intelligenza di chi sa ascoltare senza giudicare. E in quale casellario giudiziale trova spazio tutta questa umanità?

 

[QUI maggiori info sullo strumento dei Gruppi d’Incontro, QUI sul modello di riferimento]

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *