Con i piedi tra i merluzzi

Il sole a mezzanotte e la luna a mezzogiorno, il black metal e l’opera, le auto elettriche e il petrolio, l’integrazione e il neonazismo; la media a 11 euro. Estremi e nuovi astemi, che equilibrano una Norvegia affetta da un bipolarismo calmo, biondo, gentile e dall’overdose da psicofarmaco facile. Dieci giorni norvegesi di cui quattro di viaggio verso le Isole Lofoten, nel circolo polare artico. Aereo e treno prima, nave e piedi poi, che tanto ben più prezioso della vetta é il sentiero e quindi andiamo.

Oslo è alta, bionda, gentile e parla un tedesco misto al bergamasco delle valli. “Dormo” in un ostello quello che basta per sognare male e la mattina perdermi per la città dove l’Urlo di Munch è la naturale reazione al conto della colazione. Ma c’è il sole e vedere il “polo positivo” di questa Oslo bipolare non ha prezzo. Alle 16.02, non mezzo secondo più tardi, tutti in carrozza direzione Trondheim e quindi Bodø, nel nord della Norvegia. 22 ore di viaggio tra i fiordi, con gli occhi che ballano dal finestrino alle pagine di un libro di Hesse pescato a caso. Rido per una cazzata che mi balena per la testa e contagio i miei vicini di viaggio. Mi dicono ridendo qualcosa in vichingo che non capisco; ridiamo e buonanotte. Sbadiglio e buongiorno, si scende.

Mi imbarco per Moskenes e quindi a piedi fino ad Å, villaggio all’estremo sud delle Lofoten, paese con il nome più corto al Mondo, ultima lettera dell’alfabeto norvegese. Estremi che ritornano e non demordono, come i 40 pescatori che lo abitano e i gabbiani che lo volano, nella loro continua litania lamentosa. I Merluzzi sono appesi come mutande, in attesa che il vento ed il tempo li trasformi in stoccafissi, “missoltini di mare” scoperti e portati in Italia da un veneziano affondato nel Mare del Nord a inizio ‘400, salvato e nutrito dagli isolani norvegesi. Per cena pasteggio con del tonno in scatola portato da casa e brindo con del vino immaginario a questa fratellanza tra vichinghi e gondolieri. Lo stoccafisso asciuga piano ed il sole tramonta lento, mentre un gabbiano ha pescato qualcosa ed ha smesso di lamentarsi. L’estremo abbraccia l’essenziale.

Con la cultura si mangia (pesce, ovviamente) quindi rapida visita al museo dello stoccafisso e via per Reine e Hamnoy. La giornata è splendida e la gente lo rimarca sfoggiando maniche corte e sorrisi lunghi. Arrivo a Hamnoy dove dormo da Alf e Tess in una bella casa di legno bianco dove si gira scalzi e si parla poco, che tanto nel fiordo si spegne un tramonto che parla giá per tutti.

Come per lo stoccafisso, il vento e la salsedine hanno cambiato le sorti di Michele, donandogli una vita così saporita da non essere adatta a tutti i palati. Appeso anche lui come un Merluzzo all’estremo di quest’isola, il vento l’ha fatto ballare da Torino ai mari del nord, da Oslo alle Isole Lofoten. Il vento s’è poi calmato ed il ballo frenetico ha lasciato il passo ad un lento, un’esistenza essenziale che lui definisce anarchica e socialista. Asciutta e secca. Michele vive in Norvegia da 39 anni e da oltre 25 abita a Nusfjord, villaggio di 19 pescatori a sud di Ramberg, il più antico delle Lofoten. Scopro di lui per caso prima di partire e vengo calamitato dalla sua storia. Gambe in spalla e cuore in mano memorizzo il suo volto e raggiungo Nusfjord; lo riconosco in un uomo seduto ad un tavolo sul molo e mi presento. Guardandomi sembra chiedersi perché ci avessi messo tanto ad arrivare e forse, a rompere i coglioni. Apro un mutuo e beviamo qualche caffè, il giusto prezzo per entrare nelle viscere della sua storia. Pescatore nel mare del nord negli anni ’80 rimane imbrigliato nelle reti di una ragazza norvegese che gli regala due splendidi avannotti di uomo. Il vento cambia e soffia via i suoi porti sicuri, le maree si alzano e si ritrova artista solitario in un villaggio dimenticato da dio ma non dal tempo, che qui sembra essersi fermato per rimanere. l’inverno è lungo come le facce dei norvegesi, ed il suo record senza parlare, sfoggiato senza fierezza, è di tre settimane «Almeno canti sotto la doccia?» «Certo che sì, sono italiano!» Dice che internet ha ucciso la posta, scusa come un’altra per uscire di casa a ritirarla, e l’aurora boreale non smette di stupirlo, come la solitudine non smette di imbruttirlo, sostiene. Apprezzo la sua autoironia pungente, dote intelligente e preziosa per ridere da solo negli infiniti inverni. Mi regala un merluzzo fresco che cucino (malissimo) per cena e un “osso dell’oracolo” che la sera evito di invocare che tanto, da una giornata così, non avrei potuto chiedere davvero nulla di più.

Le spiagge bianche di Ramberg esaltano i cercatori di conchiglie ed i surfisti, le montagne di Leknes i cercatori di funghi ed i camminatori: non sono mai stato un buon surfista. Dalla cima del monte Himmeltinden la vista sui fiordi è da perdere la testa e la mia da qui non vorrebbe piú scendere. Ma anche oggi tocca tornare alla banalitá delle cose concrete e quindi giú fino a Bøstad e quindi Svolvær dove mi attende un peschereccio ed il suo Popeye.

Anche il merluzzo lascia le profonditá del Mare di Barents e migra nel mare di Norvegia per riprodursi, senza che nessun Minïstrø dell’Intërnø abbia da ridire davanti ad un mojito. Gli vado incontro e pesco il mio primo “Skrei” che affida al silenzio la “preghiera del rilascio” ascoltata ed esaudita. Le gambe sono pesanti come ancore, il cuore ed il portafoglio leggeri come stoccafissi. Il Governo è caduto ed è quindi tempo di remare fino a casa.

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